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Periodo Meiji (1868-1912)

Negli ultimi 250 anni il Giappone aveva mantenuto un assetto interno sostanzialmente inalterato ed aveva proseguito con la sua politica di isolamento dal resto del mondo iniziata da Tokugawa. Soltanto alle navi olandesi, una volta l’anno, era consentito attraccare in un punto ben delimitato della costa nipponica per effettuare scambi commerciali, evitando però che gli equipaggi potessero venir in contatto con la popolazione locale. Questo, come abbiamo visto, impedì l’ingresso in Giappone delle idee e delle tecnologie che nel frattempo avevano profondamente mutato l’occidente. Nei tre secoli di pace nulla di rilevante era accaduto, salvo il fatto che i mercanti, pur essendo socialmente all’ultimo gradino, grazie alle proprie ricchezze erano divenuti sempre più potenti ed i samurai, in mancanza di guerre, avevano intrapreso le attività di amministratori e burocrati.

A metà del diciannovesimo secolo le nazioni occidentali in pieno boom economico erano sempre più irritate dall’impossibilità di sfruttare adeguatamente il mercato giapponese, e tentarono inutilmente ripetuti approcci diplomatici per risolvere il problema. D’altro canto i giapponesi cominciavano a rendersi conto del divario che si era venuto a creare, della necessità di colmarlo al più presto e quindi dell’impossibilità pratica di continuare a mantenere il blocco.

Dopo numerosi tentativi diplomatici andati tutti a vuoto, nel 1853 una squadra navale americana, le famose “navi nere” del commodoro Perry, si presentò davanti alla baia di Uraga per consegnare una lettera personale del presidente degli Stati Uniti, imponendo con la forza delle armi l’apertura dei confini. I giapponesi si resero immediatamente conto dell’impossibilità di resistere con i loro vecchi archibugi ai cannoni delle corazzate occidentali. Perry promise di ritornare l’anno seguente per avere una risposta.

Il governo dello shogun non ebbe né la forza né la decisione necessaria per opporsi allo sbarco: la disparità di armamento era scoraggiante, ma determinante fu l’ormai evidente decadenza della corte shogunale totalmente impreparata a fronteggiare la situazione. Perry consegnò allo shogun una lettera del presidente americano in cui si chiedeva l’apertura dei rapporti commerciali e diede tempo al governo giapponese fino alla primavera successiva, quando sarebbe tornato con una forza navale ancora maggiore per conoscere la risposta. Alla partenza delle navi il popolo giapponese si sentiva oltraggiato per l’affronto subito, tradito dai propri capi ed allo stesso tempo incuriosito da quel mondo esterno così profondamente diverso, di cui sinora non aveva avuto percezione.

L’ultimo shogun Tokugawa non era all’altezza di affrontare la situazione, doveva da un lato sopportare l’indignazione popolare e le proteste di chi si sentiva offeso dalla situazione di inferiorità in cui il governo aveva trascinato il Giappone nei confronti dei barbari stranieri, dall’altra valutare come, dove ed a quali nazioni consentire l’ingresso, con quali stipulare accordi, cercare alleanze per risollevare le condizioni del paese; decidere insomma le modalità con cui uscire da quell’isolamento che lo shogunato aveva imposto per tre secoli ma che ormai non avrebbe potuto più in alcun modo mantenere.

Lo shogun tentò di prendere tempo: gli emissari del governo dapprima consultarono sul da farsi tutti i daimyo del paese, mostrando così chiaramente che i Tokugawa non avevano più l’autorità necessaria a decidere da soli. Risoltisi poi a raggiungere un accordo con gli americani, scelta oramai inevitabile, inaspettatamente ne chiesero l’avvallo all’imperatore Komei, riportando concretamente in gioco anche la sua figura. La risposta di Komei giunse come un fulmine a ciel sereno. Per la prima volta in 500 anni l’imperatore dava un ordine allo shogun ed era un ordine perentorio: cacciate i barbari.

Non vi era evidentemente alcuna possibilità di obbedire a quest’ordine, ma, se vi ricordate, il titolo di shogun, abbreviazione di sei-i-tai-shogun, significava “comandante in capo che libera dai barbari” e quindi la funzione, l’esistenza stessa dello shogun era legittimata dalla sua antica funzione di baluardo contro i barbari, era l’unico ordine cui non poteva sottrarsi perché il farlo delegittimava immediatamente la sua posizione. L’intera classe dei samurai era in subbuglio perché lo shogun non avrebbe potuto accordarsi con gli stranieri contro il palese volere del sovrano, ma nemmeno combatterli.

L’imperatore riuscì abilmente a cavalcare il malcontento popolare fomentando una rivoluzione capeggiata dai samurai di Choshu e Satsuma che al grido di “sonno joi” abbatterono le ultime vestigia del prestigio shogunale restituendo il potere all’imperatore. Lo slogan, intraducibile, assumeva il significato di “onore all’imperatore!” e “fuori i barbari!”.

Lo shogun, perso il controllo del paese, cominciò ad essere attaccato anche dai daimyo delle province più importanti, subendo rovinose sconfitte finché nel 1867 l’ultimo dei Tokugawa fu costretto a dimettersi e la sua carica venne abolita. Nello stesso anno era salito al trono l’imperatore Mutsuhito dando inizio all’era Meiji, o “del governo illuminato”. Nel 1868 i grandi daimyo occuparono il palazzo shogunale e dopo aver definitivamente sconfitto i Tokugawa a Toba-Fushimi, decretarono la confisca di tutte le loro proprietà, la creazione di un governo provvisorio e la restaurazione dei pieni poteri imperiali.

La restaurazione Meiji costituì una brusca svolta, un drastico cambiamento nella vita pubblica e privata del Giappone. Costò ai giapponesi quasi quindici anni di disordini: mutamenti di rotta, alleanze interne e defezioni continuarono ad accavallarsi, tra atti terroristici, omicidi politici e sanguinose repressioni. Alla fine fu chiaro che, nonostante le premesse su cui si era basata la rivolta che aveva restituito all’imperatore il controllo del paese, i “barbari” occidentali avevano ormai contagiato i giapponesi che non potevano più sottrarsi all’influsso delle nuove idee e delle nuove conoscenze.

Il sistema feudale venne definitivamente abolito con la restituzione all’imperatore, e quindi allo stato, delle terre possedute dai vassalli e con la loro trasformazione in prefetture. I contadini furono liberati dalla servitù della gleba, cioè non erano più legati al pezzo di terra che era stato loro affidato, anche se questa “libertà” comportava la perdita di ogni diritto su tale terra. Il servizio militare divenne di leva, ad imitazione dell’occidente: non vi era quindi più una sola casta che per tutta la vita si dedicava alle esigenze militari ma tale incombenza veniva svolta, a turno, da tutto il popolo. Questo tolse la ragione di esistere ed il sostentamento alla classe dei samurai, ai quali però un’apposita legge concesse di poter svolgere altri lavori: prima era considerato disdicevole per un samurai maneggiare denaro o dedicarsi al commercio. Per alleggerire la pressione dell’enorme massa di samurai di basso rango rimasti senza lavoro, alcuni governanti proposero di impiegarli in un progetto espansionistico attaccando la Corea. All’ultimo momento questo progetto fu però abbandonato, a causa soprattutto delle nuove idee politiche portate dalle missioni diplomatiche di ritorno dall’Europa. La delusione provata scatenò l’ultima e più violenta ribellione dei samurai i quali, raccolta un’armata di quindicimila uomini, marciarono sulla capitale: l’esercito di leva, formato da quarantamila coscritti bene armati ed addestrati da esperti occidentali, li sconfisse seccamente il 24 settembre 1877. Era veramente la fine del feudalesimo: i guerrieri di professione del Giappone tradizionale, i samurai, erano stati sconfitti dalle truppe formate da heimin, la “gente comune”. Mutsuhito comprese immediatamente la situazione e, una volta liquidato lo shogun,  non si oppose più ma anzi favorì in ogni modo il processo di modernizzazione che avrebbe portato nel giro di pochi decenni il Giappone ad allinearsi con le altre potenze mondiali. La sua augusta firma sui trattati internazionali stava a significare che gli stranieri non erano più barbari da cacciare ma vicini con cui confrontarsi. Studiosi e diplomatici vennero inviati alle corti europee, in Inghilterra, in Francia, in Germania e qui copiarono mode e tecnologie, idee e costumi, vizi e virtù. Lo stesso sistema di governo giapponese si modificò su imitazione delle democrazie occidentali consentendo libertà impensabili solo qualche anno prima. Nel 1869 l’imperatore ed il governo si trasferirono da Kyoto ad Edo, che per l’occasione fu ribattezzata Tokyo, “capitale orientale”. Nel 1890  venne promulgata la Costituzione Meiji, sapiente dosaggio di istituti politici occidentali e di peculiarità tradizionali giapponesi, benignamente concessa dall’imperatore, la cui persona, sacra ed inviolabile incarnazione dello Stato, era al di sopra delle parti politiche: il governo, costituito da due Camere ed una Assemblea elettiva, era sì il governo “dell’imperatore”, ma questi non ne era responsabile, mentre dal canto loro i ministri agivano nel nome del sovrano. Era il sistema politico tipico del Giappone di sempre in cui chi aveva l’autorità non aveva il potere, mentre chi deteneva il potere lo faceva in nome di un’autorità che non poteva essere chiamata a rispondere.

Il popolo giapponese compì uno sforzo enorme per uscire dal medioevo e mettersi alla pari con le altre nazioni, ma in questo sforzo qualcosa andò perso. Nell’ansia di rinnovarsi, tutto ciò che rappresentava un legame con un passato che si voleva dimenticare, veniva guardato con sospetto. Le arti marziali, i samurai, il bushido, le tradizioni culturali ed artistiche, lo stesso sentimento di identità nazionale entrarono in crisi. Solo il rispetto e la fedeltà verso l’imperatore, che ancora si riteneva diretto discendente della dea Amaterasu, rimase immutato costituendo l’unico fattore aggregante che teneva unito lo stato.

È in questo contesto culturale che le varie arti marziali, primo fra tutti il ju-jutsu, rischieranno di essere irrimediabilmente dimenticate. Per sopravvivere dovranno prendere le distanze dal loro aspetto guerresco, dal loro retaggio feudale, privilegiando il lato etico e sportivo, il passaggio cioè dal “jutsu” al “do”. In pratica punteranno tutto sui quei contenuti etici e di crescita interiore che il bushido aveva già sviluppato negli ultimi tre secoli mutuandoli dalla dottrina confuciana. Chi per primo si rese conto della necessità di rinnovamento e delle potenzialità ancora insite in queste arti che stavano scomparendo fu Jigoro Kano, che trasformò quanto restava del vecchio ju-jutsu in una nuova disciplina dagli alti contenuti morali: il Judo Kodokan.

Grazie al genio di  Jigoro Kano la “nuova” arte marziale  judo si poneva in linea con i principi della restaurazione, diveniva anzi un biglietto da visita per mostrare al mondo le qualità del pensiero giapponese. In un periodo in cui il Giappone stava assorbendo praticamente tutto dall’occidente fu incoraggiata a tutti i livelli la possibilità di avere qualcosa di valido da esportare, soprattutto qualcosa che testimoniasse la millenaria civiltà del Sol Levante. Tutte le antiche scuole di ju-jutsu confluirono nel judo e presto anche le altre arti marziali furono rivisitate in veste moderna, assumendo analoghi contenuti morali e sportivi.

Buona parte della tradizione feudale che non aveva saputo o voluto trasformarsi, andò però incontro all’estinzione, inesorabilmente cancellata dalla volontà di progresso. Quando poi un editto imperiale proibì ai samurai di indossare in pubblico la spada, si assistette alla definitiva fine di un’era: innumerevoli furono gli harakiri di samurai che preferirono suicidarsi piuttosto che rinunciare al proprio ruolo, ed in alcune zone si ebbero delle brevi rivolte armate, ma il processo era ormai inarrestabile: gli antichi samurai dovevano diventare i funzionari ed i capitani d’industria del nuovo Giappone moderno.

Le prime prove dei risultati di questa fulminea trasformazione si poterono osservare in campo militare quando nel 1895 il Giappone, per garantire la propria supremazia nel sud-est asiatico, attaccò e scacciò le truppe cinesi dalla Corea; pochi anni più tardi, nel 1905, entrati in conflitto per analoghi motivi con la Russia degli Zar, annientarono completamente la flotta da guerra russa nella battaglia navale di Tsushima. In pochi anni il Giappone era divenuto in grado di trattare alla pari con le potenze occidentali.

L’imperatore Mutsuhito