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Il Buddhismo Zen

 

Il buddhismo,come abbiamo visto nella parte dedicata alla storia, arrivò in Giappone nel V° secolo. Il buddhismo non è esattamente una religione, almeno non nel senso occidentale del termine. Per noi la religione è qualcosa che governa il rapporto tra l’umano ed il divino: non solo le grandi religioni monoteistiche, ma anche le religioni greca, romana, germanica, nordica, egiziana, babilonese prevedevano una o più divinità.

Ma il Buddha non è propriamente un dio, non è nemmeno qualcuno che profetizza la venuta di un dio: semplicemente si occupa di altre cose. Partendo dal concetto indiano di ciclo delle rinascite afferma che lo scopo di queste continue reincarnazioni è quello di riuscire a raggiungere l’illuminazione, cioè la piena comprensione. Buddha è semplicemente un uomo che è riuscito a raggiungere questa comprensione e che quindi avendo raggiunto il suo scopo non è più costretto a rinascere. E poiché la vita è sofferenza in questo modo interrompe la sofferenza. Detto in parole crude: può finalmente morire, ed accedere così ad un livello superiore di esistenza.

La possibilità di raggiungere l’illuminazione dipende dal comportamento di ognuno, quindi in ultima analisi il buddhismo può essere considerato una filosofia di vita, una lezione di comportamento morale. In questo modo il buddhismo in Giappone risultò l’ideale completamento della religione shintoista: lo shinto regolava i rapporti con il soprannaturale mentre il buddhismo forniva una base per la propria crescita individuale.

Il buddhismo, nato originariamente in India, si è sviluppato principalmente in Cina e qui iniziò ad assumere una connotazione più trascendentale: i bodhisattva venivano venerati come dei santi, e si cominciò a distinguere tra il Buddha storico, il Sakyamuni realmente vissuto, ed il Buddha universale, incarnazione dell’idea di buddhità. In Giappone si operò una sovrapposizione tra la mitologia shinto e le figure rilevanti del buddhismo: così il buddha Amida fu equiparato ad Hachiman, dio della guerra, i bodhisattva erano identificati con i kami ed Amaterasu rappresentava il Buddha universale. Le due divinità creatrici dello shintoismo, Izanami ed Izanagi, vennero identificate con i principi dello Yin e dello Yang. Quindi in un certo senso anche il buddhismo ha avuto le sue divinità, soprattutto nella sua interpretazione più popolare.

Fino ad ora abbiamo parlato di buddhismo in generale. Una corrente di questa religione che ci interessa da vicino per la sua influenza sulle arti marziali è il buddhismo Zen. Lo Zen è giunto in Cina dall’India portato da Bodhidharma, considerato il primo patriarca, che fondò il monastero di Shaolin. Il termine “bodhi” che incontreremo con una certa ricorrenza non c’entra nulla con l’inglese body, ma deriva da Buddha e può essere tradotto come “risveglio”.

All’inizio lo Zen non era chiaramente separato dalle altre forme di buddhismo, ma all’epoca del quinto patriarca si era già formata una corrente di pensiero più profonda, che sembrava avvicinarsi più facilmente allo scopo primo del buddhismo, quello di raggiungere l’illuminazione, o quanto meno il satori, termine giapponese che indica questo stato di risveglio, di improvvisa conoscenza, che non è ancora la piena illuminazione, la buddhità, ma quanto di più vicino ad essa possa essere umanamente sperimentato. Il sesto patriarca, Hui-neng, è considerato il maggior maestro di buddhismo zen.

Ma che cos’è lo Zen? Non è facile definirlo: un aforisma zen dice che “non appena si comincia a parlare di zen, lo zen non è più qui”. Quando il quinto patriarca dovette scegliere un successore chiese ai suoi monaci di scrivere una poesia illustrante l’essenza del buddhismo. Il migliore di essi scrisse “Il corpo è l’albero del bodhi e l’anima è come uno specchio lucente. Mantienilo sempre pulito e non lasciare che la polvere vi si posi”. È evidente il significato morale: la polvere sono i cattivi pensieri, le azioni indegne. Al che Hui-neng rispose “Non vi è nessun albero del bodhi e nessuno specchio. Dove si poserà allora la polvere?” e divenne sesto patriarca.

Lo Zen, in cinese “chan” che vuol dire meditazione, si differenzia dalle altre correnti di buddhismo non tanto per la dottrina quanto per il modo di raggiungere l’illuminazione. Lo Zen rifugge da qualsiasi inquadramento, da qualsiasi elucubrazione mentale, da qualsiasi dottrina o spiegazione, predicando la spontaneità e l’immediatezza. I racconti zen sono famosi per la loro apparente mancanza di logica. Nel monastero di Nansen alcuni monaci di basso rango stavano litigando per il possesso di un gatto. Il priore afferrò l’animale e disse ai monaci che l’avrebbe donato a chi fosse stato in grado di spiegare esattamente cos’era il buddhismo, altrimenti lo avrebbe tagliato in due. Nessuno seppe dare una risposta accettabile. Il giorno seguente Joshu, famoso monaco zen, rientrò al monastero da un lungo viaggio e fu informato della vicenda del gatto. Quando gli chiesero cosa avrebbe risposto lui, Joshu si tolse un sandalo, se lo mise in testa ed uscì dalla stanza. Subito informarono il priore della strana risposta, e questi commentò “Se Joshu fosse stato presente, avrebbe salvato il gatto”.

Anche lo stesso satori non è un processo graduale ma è il prodotto di un lampo d’intuizione che può essere provocato dalle azioni più disparate: una parola del maestro, un gesto, un’azione casuale. Sempre a Joshu un monaco chiese di essere istruito sullo Zen. Joshu gli chiese “Hai già fatto colazione?” “Sì, maestro, l’ho fatta” “Allora va e lava le tue ciotole!”. E la mente del monaco fu improvvisamente aperta.

Lo Zen venne importato in Giappone nel 13° secolo ad opera di due monaci buddhisti che erano stati per qualche tempo in viaggio di studio in Cina. Dogen fondò la setta Soto ed Eisai fondò quella Rinzai, ancor oggi le due più diffuse in Giappone. La corrente Rinzai ritiene che per raggiungere l’illuminazione l’adepto debba impegnarsi severamente mentre la corrente Soto predica che i germi dell’illuminazione sono già presenti in ciascuno di noi, basta riuscire a tirarli fuori. Nello Zen Soto viene data maggior importanza allo za-zen, cioè alla meditazione seduti (zen = meditazione e za = seduti), meditazione in cui si badi bene non si cerca di concentrarsi su di un argomento per approfondirlo, ma al contrario si cerca di liberare la mente da ogni pensiero, perché solo da questo vuoto mentale può nascere il satori. Lo Zen Rinzai invece attribuisce maggiore importanza ai koan, quesiti logici senza risposta, il cui studio può portare ad un balzo improvviso di comprensione. Se ottengo un certo suono battendo due mani insieme, che suono dà una mano sola?

Il buddhismo zen non era certamente adatto per il popolo, ma entusiasmò i samurai che ben si riconoscevano nel rigore morale della disciplina, nello scarso peso dato alle dottrine, ai testi sacri ed alla recitazione dei sutra, mentre tutto era incentrato sulla immediatezza e sulla spontaneità, come spontanea ed immediata doveva essere l’azione del guerriero. Il maestro Dogen interrogato da un allievo su cosa facesse per praticare bene lo Zen, rispose “Quando ho fame, mangio. Quando ho sonno, dormo”. Si adattava perfettamente alle arti marziali, anch’esse impostate sull’immediatezza della risposta, che doveva giungere in modo istintivo, senza stare a pensare. Questo è un grosso contributo dello Zen all’arte marziale: noi diciamo sempre che dopo aver provato migliaia di volte la tecnica, questa deve partire da sola al momento giusto, in modo automatico. Si adattava soprattutto al concetto bushido della morte, come vedremo più avanti.

I giapponesi usano due termini per rappresentare il metodo di apprendimento del buddhismo mahayana: TA RIKI (con l’aiuto di un altro) e JI RIKI (solo con sé stessi). Nel Tariki la salvezza è affidata a fattori esterni, alla grazia divina, alle opere buone, alla recitazione di formule sacre: è il Jodo, la forma più facile di buddhismo. Nel Jiriki l’illuminazione è ottenuta tramite uno sforzo interno, l’autodisciplina e l’addestramento sotto la guida di un maestro. È la via dello Zen, dello Shingon e del Tendai, che sono diversi modi di praticare il buddismo. In Giappone si diceva che il Tendai è per la famiglia imperiale, lo Shingon per i nobili, lo Zen per i samurai ed il Jodo per il popolo.

Il buddhismo zen ebbe il suo massimo fulgore in Giappone nel 15° secolo, poi man mano i concetti zen di semplicità, spontaneità ed immediatezza, uscirono dall’ambito religioso e compenetrarono tutta la cultura nipponica: dalla disposizione dei fiori alla cerimonia del tè, dalle arti marziali alla calligrafia, dalla poesia alla pittura, all’estetica dei giardini zen, giardini di sola sabbia mossa da qualche pietra posta in modo da suscitare una certa sensazione, tutto si ispira al medesimo principio di essenzialità. Oggigiorno quando si parla genericamente di zen non si vuole alludere alla pratica del buddhismo, che pure sopravvive e trova proseliti anche in occidente, ma ad un modo di essere e di sentire che non ha più ormai alcuna connotazione religiosa.

La cerimonia del tè, ad esempio, con la sua calma, la sua lentezza, la ripetizione infinita dei gesti fino a raggiungerne la perfezione, costituiva per il samurai un momento di pace prima della battaglia. Chi ha avuto occasione di vedere il film “Morte di un maestro del tè”, incentrato sulla vita di Rikyu, il grande maestro che ha codificato questa disciplina, ricorderà come lo stesso Hideyoshi fosse un frequentatore della sua casa da tè. Anche nel judo abbiamo questo concetto zen di continuare a ripetere la tecnica fino a raggiungere la perfezione, senza cercare facili scorciatoie, ma impegnandoci a migliorare sempre più, non solo per conseguire una maggior efficacia ma anche per il gusto della purezza, della bellezza del movimento. Altro noto esempio è il kyudo, il tiro con l’arco, dove si dice che la freccia al momento giusto dovrà partire da sola ed il bersaglio da colpire è l’arciere stesso.

Questa è la caratteristica comune di tutte le “vie”, di tutte le arti che hanno in sé il concetto di “do”: l’arte non serve a vincere l’avversario ma a vincere sé stessi. Lo scopo ultimo del chado, la via del tè, come dello shodo, la via del pennello, o del judo non è tanto dominare la tecnica od imparare l’arte, questo è solo un aspetto esteriore, ma tramite la ripetizione infinita dell’esercizio ad un certo punto portare l’allievo ad innalzarsi da questo ambito ristretto per raggiungere la consapevolezza, il dominio di sé, la realizzazione spirituale. Per questo il vero maestro insisterà sempre sulla corretta forma senza concedere deroghe. Se il fine ultimo non è la tecnica in sé ma il dominio di sé stessi, il discepolo dovrà affinare il proprio movimento fino a raggiungere lo standard richiesto e non certo modificare le richieste per adattarle alle proprie incapacità. Tutto questo fintanto che parliamo di arti, di “vie”; se parliamo di analoghe discipline in versione sportiva allora gli scopi sono ben altri, non cerchiamo più lo Zen ma la medaglietta e questo comporta una filosofia diversa.

Hui Neng straccia i Sutra

Sen no Rikyu, maestro del Tè